Il viaggio dei migranti eritrei non è durato giorni o settimane. Il viaggio è durato mesi e mesi. Passando per Khartoum, Sudan, dove i più fortunati sono riusciti a trovare un lavoro per racimolare almeno parte della somma necessaria a pagare il “passaggio” sui barconi: gli altri soldi li hanno avuti dai parenti già emigrati in Europa, o sono un “investimento” dalle famiglie, un’assicurazione sul futuro. Poi da Khartoum la traversata del deserto fino alle coste libiche, dove i migranti in arrivo dal Corno D’Africa o dalla Siria vengono catturati, imprigionati in campi di detenzione, picchiati, torturati, le donne violentate: l’organizzazione criminale ramificata che specula sulla disperazione è uno dei principali business della Libia di oggi. Vogliono soldi, tutti quelli che riescono a estorcere, per assicurare il viaggio verso le coste nord del Mediterraneo.
L’esodo di Daniele, 22 anni -si è dato un nome italiano per facilitarci- è durato 8 mesi. Il passaggio sul barcone gli è costato 1650 dollari. Con quelle 4 parole italiane che ha a disposizione dice che in Libia sono “tutti ladri”, continua a ripetere che erano anche poliziotti e militari, ma “con maschera”, in faccia non li ha visti. Nei campi di detenzione, in attesa di imbarcarsi, è rimasto tre settimane. Tanto “picchiare”, un pane e un po’ di acqua quanto meno per tenerli vivi.
Nave San Giorgio ci sbarca ad Augusta. Dopo i recuperi biblici del 7-8-9 aprile, quasi 7 mila persone, il traffico si è momentaneamente fermato. Le condizioni del mare sono state proibitive. Anche per la settimana entrante si prevede tempesta. Ma a Sabato Santo e a Pasqua il maltempo ha dato una breve tregua. Veniamo avvisati che gli scafisti potrebbero approfittare di questa breve finestra di mare buono per far partire dei barconi. Attendiamo ad Augusta, finché non arriva la conferma: due barconi sono in viaggio, la fregata Espero e il pattugliatore Cassiopea si stanno dirigendo a recuperarli. Sbarcheranno a Pozzallo, nel Ragusano, estremo sud della Sicilia.
Ci trasferiamo da Augusta a Pozzallo e la mattina presto una motovedetta della Capitaneria di Porto ci permette di raggiungere la nave Espero, all’ancora con il suo carico umano a poche miglia dal porto. Il pilota della motovedetta taglia corto: “Ce lo lascerebbe, lei, un bambino di un anno ad affogare in mare?“. In prossimità della nave sentiamo un canto. La folla dei migranti -433, di cui 75 donne, 4 incinte, 3 bambini piccoli e decine di minori non accompagnati, migranti ragazzini- è assiepata sul ponte: un’altra notte all’addiaccio dopo la giornata e la nottata sul barcone, sull’Espero non c’è altro posto dove metterli. Hanno mangiato un po’ di pasta, ci sono pentoloni di the caldo e merendine. Non stanno cantando. Stanno pregando. Sono quasi tutti cristiani, è Pasqua anche per loro.
Bisogna vederlo il mare di notte, i fuochi tetri delle piattaforme petrolifere della Libia, per capire quanta paura puoi provare quando ti stipano su quei pezzi di legno che dovranno affrontare centinaia di miglia. Certe volte, dicono i marinai di Mare Nostrum, sono gommoni semi-sgonfi e talmente affollati che vedi solo un grappolo umano in mezzo al mare, come se galleggiasse senza natante. Devi scappare da una paura ben più grande per riuscire ad affrontare quella. Lo chiedo a Daniele: “Non hai avuto paura a salire sul barcone?”. “No” mi risponde. “Mi aiuta Dio, e Santa Maria”. Ce l’ha anche scritto sul corpo, “God”, un piccolo tatuaggio sul collo. La Madonna addolorata delle processioni che il Venerdì Santo in tutta la Sicilia piangono la morte di Gesù deve aver pregato anche per loro. Quando scendono dalla grande chiatta che li scarica in porto si inginocchiano e toccano la terra con la fronte, e poi la baciano tre volte. Il rituale rallenta le operazioni di sbarco -il passaggio ai metal detector, la foto per una prima identificazione- ma le forze dell’ordine, Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, medici e volontari della Protezione Civile, attendono rispettosamente che possa compiersi.
Il medico dà l’autorizzazione allo sbarco. C’è un uomo febbricitante che trema a terra, quasi tutti hanno una tosse straziante, viaggiano praticamente nudi, con una T-shirt o una camicina, nessun bagaglio, niente di niente, i più fortunati hanno un cappello e una felpa. Da Cassiopea è stato trasportato in elicottero un diabetico in coma iperglicemico, ma stavolta gravi problemi sanitari non ce ne sono stati. Il dottore si avvicina a una ragazza incinta al settimo mese, è talmente minuscola che la pancia quasi non si vede: le palpa l’addome, le donne lanciano un piccolo grido di allarme, questa intimità fisica sembra una violazione. Cerchiamo di tranquillizzarle: “He’s a doctor. He’s papa“, non le sta facendo del male. I bimbi, non più di due anni, corrono sul ponte con un pallone. Nebi non apprezza le nostre carezze di donne. E’ piuttosto macho, preferisce farsi delle passeggiatine per mano a un omone in tuta mimetica del battaglione San Marco.
Quando la grande chiatta carica di umanità si stacca dalla nave, i generosi marinai di Espero che si affacciano per assistere alle operazioni, i migranti esplodono in uno, due, tre applausi. Di ringraziamento, di sollievo, di speranza. Ci sarà ancora da tribolare ma forse il peggio è alle spalle. Lì proprio non riesco a trattenermi, le lacrime bagnano la mia mascherina sanitaria. Penso ai bastimenti dei miei trisavoli che approdarono a Ellis Island, New York. Il loro nome è ancora sui registri. Stessa carne, stessa umanità bisognosa.
Le operazioni di sbarco sono lunghe e complesse, il caldo africano arroventa la banchina. I migranti sono destinati al centro di prima accoglienza di Comiso, vari pullman sono in attesa. Le donne fanno resistenza. Si accucciano quiete e caparbie, non vogliono salire. Non intendono venire separate dai loro compagni di viaggio. Dico ai poliziotti che forse ci vorrebbero delle donne per accompagnarle, che vedere tanti uomini in divisa può spaventarle. Alla fine si convincono e salgono a bordo. I ragazzini sono i più eccitati: quei pullman con l’aria condizionata sembrano navicelle spaziali, si accomodano ai loro posti con gli occhi che brillano. Alcuni possibili scafisti vengono intercettati.
La carovana parte: pullman, camionette della polizia, la nostra auto al seguito. Un’oretta di viaggio nella campagna ragusana, tra i carrubi e i muri a secco, mentre i siciliani siedono a tavola per il pranzo pasquale. In prossimità del centro la carovana rallenta e poi sosta per qualche minuto. E’ un attimo:una dozzina di migranti balza fuori dal finestrino dell’autista, una corsa disperata tra i campi assolati per paura di chissà che cosa, per andare chissà dove. C’è anche una ragazza che corre come una giovane gazzella. I poliziotti non riescono a fermarli. Ne acchiappano uno che resta qualche minuto a terra, una smorfia di dolore, come Gesù caduto sotto la sua croce.
Il centro è accogliente, decoroso, ristrutturato da poco. Piccole casette, materassi di gommapiuma allineati ordinatamente nelle stanze, lenzuola ancora nei cellophane, coperte, bagni puliti. Nel cortile viene distribuito il pasto: conchiglie al pomodoro, carne, patate, acqua. Qualche cagnetto randagio circola sperando di intercettare un boccone. Ci sono già ospiti: giovani nigeriani e ghanesi lindi nelle loro tute nuove: i siciliani sono disperati per quello che sta capitando nella loro isola eppure sempre pronti a soccorrere, a condividere, a portare abiti e scarpe smesse. Fanno quello che possono. Un giovane nigeriano si avvicina. Mi dice in inglese che lui e i suoi compagni stanno lì da 17 giorni: solo mangiare e dormire, non è vita, così finiremo per ammalarci. Siamo venuti qui per lavorare. Scambio uno sguardo con un poliziotto: lavorare? Il poliziotto allarga le braccia:ormai anche per i lavori agricoli stagionali si fanno sotto i siciliani. Gli ospiti del centro chiedono tutto: sigarette, euro, poter telefonare in Nigeria o in Norvegia dove hanno qualche parente a cui riferirsi.
La Marina Militare con la missione Mare Nostrum fa splendidamente il suo lavoro: 28 mila persone tirate su dal mare in 6 mesi, tante donne e bambini, anche partoriti sul barcone.Un modello di accoglienza e di efficienza a cui il mondo dovrebbe guardare. I problemi cominciano a terra. Cosa fare di tutta questa gente, dove sistemarla, come aiutarla a campare. Il resto d’Europa se ne lava allegramente le mani. Ad Augusta, per esempio, c’è una scuola che ospita 80 minori non accompagnati. Stanno lì da mesi. Girano per la città come cuccioli randagi. Quello che è capitato a Lampedusa, che momentaneamente ha chiuso a nuovi arrivi, oggi sta capitando in tutta la Sicilia.
Chiudo con i numeri di ieri: più di 800 migranti recuperati da Espero e Cassiopea con l’aiuto del mercantile Red Sea. A cui è seguito nelle ultime ore il soccorso di altri 400 migranti presi a bordo da nave San Giorgio: dopo le prime cure da parte del personale sanitario, tra cui i volontari dellaFondazione Francesca Rava (con il supporto di Wind), oggi saranno trasferiti su Espero che li sbarcherà da qualche parte. 1200 persone in poche ore. Appena le condizioni del mare lo consentiranno, con il buon tempo di maggio, giugno, luglio, gli sbarchi riprenderanno a ritmo esponenziale: non è detto che il canale umanitario di Mare Nostrum abbia risorse per continuare a lungo la missione, e questo potrebbe provocare un esodo biblico dalle coste sud del Mediterraneo. Secondo il ministro Alfano ci sarebbero 600 mila persone in attesa di imbarcarsi.
Le prossime settimane potrebbero essere drammatiche.
C’è bisogno di tutto. E di tutti. Nessuno escluso.