Pubblichiamo di seguito l'articolo di Vittorio Longhi apparso su Repubblica il 4 oct scorso.
E' uno spaccato della situazione vista da Longhi, che ci aiuta meglio a comprendere il perchè dell'arrivo sulle nostre coste di tanti profughi.
Nel dibattito europeo sulla migrazione nel Mediterraneo, c'è un elemento di analisi che continua a mancare e che riguarda le cause della fuga. Manca un qualsiasi ragionamento su ciò che avviene e ciò che si può fare nel paese da cui proviene gran parte dei rifugiati: l'Eritrea.
Secondo le stime delle Nazioni Unite ogni mese scappano circa quattromilapersone dal piccolo stato del Corno d'Africa. Solo l'anno scorso ne sono arrivate quasi diecimila in Italia. Molti si perdono durante il viaggio, vengono arrestati perché senza documenti, muoiono nel deserto o cadono nella rete dei trafficanti di organi.
La crisi Eritrea è un fenomeno che dovrebbe spingere l'Unione Europea e la comunità internazionale a cercare soluzioni che vadano oltre il pattugliamento delle coste, oltre le operazioni di soccorso in mare e anche oltre le commemorazioni di rito, per le tante morti che si potrebbero evitare.
La notte dopo il naufragio a largo di Lampedusa ero nell'hangar dell'aeroporto dove stavano i cadaveri ritrovati, tutti eritrei. Quando sono arrivati i superstiti, per l'ultimo saluto, ho assistito al pianto collettivo di fronte a quella fila di bare. Un pianto che è cresciuto lentamente, fino a diventare un grido insopportabile di dolore, che non riguardava solo la tragedia del giorno prima. Era una richiesta disperata di aiuto, la domanda di una generazione intera di giovani donne e uomini costretti a lasciare il proprio paese oppresso dalla dittatura.
Sorvegliare e punire
Per capire che cosa significhi davvero quell'oppressione e quanto sia solida, radicata, bisogna andare in Eritrea e provare a fare domande.
d Asmara nessuno osa parlare del governo e del presidente Isaias Afewerki, al potere da 20 anni. Non si trova un giornale indipendente o un qualunque spazio in cui si possa discutere di politica. Per le strade assolate della capitale non si incontrano manifestazioni o cortei. Al minimo tentativo di protesta si rischia la carcerazione immediata, senza possibilità di difesa. I detenuti sono portati nelle aree più remote, in prigioni spesso sotterranee o nei container infuocati dal sole. Alle torture sistematiche si aggiungono la privazione di acqua e di cibo.
Questi racconti non vengono solamente da chi fugge verso l'Europa, ma anche da alcuni dei "patriot", i combattenti che hanno liberato l'Eritrea dal dominio etiopico nel 1991. Anche loro, quando mettono in discussione l'autorità del dittatore, fanno la fine degli oppositori. Eppure non si vede un poliziotto per le strade di Asmara, né un militare. Chi conosce la national security eritrea spiega come ogni straniero, anche se entrato con il visto turistico, sia guardato a vista. Basta fare domande sul governo oppure girare con una macchina fotografica per essere seguiti e controllati. I tassisti spesso mi hanno pregato di non fare foto o riprese dal finestrino, per paura di ritorsioni. Negli spostamenti da una città all'altra è necessario richiedere il permesso all'autorità dei trasporti. In quel documento, che va esibito ai posti di blocco e agli alberghi, ci sono sia il nome del viaggiatore sia dell'autista. Un sistema di repressione silenzioso che si basa sul servizio militare obbligatorio, per uomini e donne dai 17 anni in poi, e che ha trasformato un popolo intero in un grande apparato di sorveglianza, in cui tutti sono potenziali spie.
Quando ho chiesto delle reazioni delle famiglie al naufragio di Lampedusa, mi hanno raccontato che molti si radunavano agli incroci di Harnet avenue, ad Asmara, per vedere le foto dei giovani scomparsi. La polizia arrivava in pochi minuti a disperdere ogni assembramento, ma non prima di avere identificato i presenti.
Lo sfruttamento del regime
"Afwerki ci vuole isolare dal resto del mondo, così nessuno può vedere quello che succede qui", mi ha confidato un'insegnante di 30 anni, incontrata sulla via per Keren. Fino al 2006 lavorava per le Ong europee in progetti di cooperazione, ma poi il governo ha trovato pretesti burocratici per allontanare ogni organizzazione straniera. Afwerki sostiene che il suo paese non ha bisogno degli aiuti occidentali.
Quello che non dice è che la gran parte dei cittadini eritrei impiegati dallo Stato non guadagna più di 500 Nakfa al mese, circa 10 euro. Una massa di lavoratori e lavoratrici a basso costo, a disposizione di imprese pubbliche e private, soprattutto nelle costruzioni e nelle miniere. Settori in cui non mancano le aziende occidentali e crescono gli investimenti cinesi.
Si vive sotto la soglia di povertà e molti sono costretti a cercare altri lavori per sopravvivere. A Massawa, un tempo uno dei porti principali del Mar Rosso, Adgoi Kidane noleggia la propria auto agli stranieri sperando di mettere insieme i soldi che servono per passare il confine e raggiungere i fratelli maggiori in Sudan. "I militari chiedono circa 1000 dollari per nasconderti in una macchina e arrivare dall'altra parte senza problemi", mi ha detto.
Che la dittatura speculi anche sulla migrazione non lo dimostra solo la corruzione dei militari. Il governo ha introdotto da qualche anno la tassa del 2 per cento sulle rimesse, ovvero su tutto il denaro che arriva dall'Europa o dagli altri paesi in cui si estende la diaspora eritrea.
Che cosa fa la comunità internazionale?
Di fronte a tutto questo, Isaias continua a fare la vittima della grande Etiopia che minaccia ogni giorno di tornare a invadere la piccola, orgogliosa e combattiva Eritrea. Dopo una guerra durata 30 anni, dopo un accordo internazionale e una commissione per separare i due territori, l'Etiopia continua a esigere l'accesso al mare e tiene alta la tensione ai confini.
Dopo un nuovo conflitto tra il 1998 e il 2000, la comunità internazionale ha smesso di occuparsene, lasciando il pretesto ideale ad Afewerki per stringere ancora di più il controllo e militarizzare la nazione. Dal 2009 l'Eritrea è anche sotto embargo Onu con l'accusa di armare il terrorismo islamico in Somalia e così contribuire a destabilizzare il Corno d'Africa.
Di certo, però, isolare il paese non è la soluzione alla dittatura e alla persecuzione di un popolo, così costretto alla fuga.
La settima scorsa il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha nominato i membri della commissione d'inchiesta sull'Eritrea, tornando a denunciare la mancanza delle libertà fondamentali. Anche la diplomazia europea recentemente ha chiesto la liberazione di dissidenti e giornalisti eritrei tenuti in carcere dal 2001 senza accuse formali e senza processo.
L'opposizione è divisa
Condanne e dichiarazioni d'intenti non sono più sufficienti, però. Ci vuole una presa di posizione forte e un'azione diplomatica decisa sul governo eritreo, sia da parte della Commissione Europea che da parte Onu. Anche l'Italia potrebbe fare la sua parte. Non solo perché siamo il paese che vede arrivare (e morire) più rifugiati eritrei, o per i legami storici che risalgono al colonialismo, ma anche perché la presenza italiana è ancora forte. Ad Asmara c'è la più grande scuola italiana all'estero, frequentata da migliaia di studenti, e ci sono varie imprese di italiani - da quelle tessili a quelle alberghiere - che fanno buoni affari visti i bassi costi di produzione.
Va detto, in ogni caso, che un intervento esterno andrebbe accompagnato da un movimento democratico interno di opposizione. Un movimento da coordinare e sostenere per rovesciare il presidente e i suoi generali, e così avviare un processo di libere elezioni. L'opposizione, però, è ancora frammentata in tanti piccoli gruppi politici ed etnici. "Per motivi storici che risalgono alla liberazione, le forze politiche eritree sono divise e sono quasi tutte fuori dal paese", spiega Valentina Fusari, ricercatrice italiana e docente ad Asmara.
In effetti, i maggiori gruppi di opposizione, da quelli democratici a quelli d'ispirazione musulmana, nati dal Fronte di Liberazione Eritreo (ELF), sono organizzati dall'Europa o dal Sudan, mentre i gruppi etnici, come gli Afar o i Kunama, stanno in Etiopia e sono sospettati di essere armati da Addis Abeba. Fino a che non convergeranno una seria iniziativa diplomatica esterna e una forte azione politica interna, i giovani eritrei saranno costretti a scegliere tra vivere senza libertà, se restano, e rischiare la morte, se partono.