È il caso ad ancorare un evento a una data, come la pallina cade nella casella numerata della roulette. Così nella storia di una comunità o di un singolo individuo, quel determinato giorno conserva per sempre l'impronta di ciò che vi è successo e diventa la chiave che ne riapre la memoria. E degli innumerevoli avvenimenti che si sono accalcati nel tempo su ogni giorno dell'anno, per uno che riemerge un altro cade nell'oblio a seconda del momento, perché come ci ha mostrato bene Italo Svevo il presente vince sempre sul passato e lo reinventa in base alle proprie necessità. Sempre per caso capita poi che una sovrapposizione di eventi conferisca a una certa data una singolare valenza simbolica, e il 3 ottobre è di certo una di queste. La notte fra il 2 e il 3 ottobre del 1935 l'Italia fascista muoveva alla conquista dell'Etiopia.
Dovrebbe essere una pagina di storia nota a tutti, ma non è scontato sia così, data la colpevole rimozione attuata sul nostro colonialismo e gli striminziti paragrafi che gli dedicano i manuali di scuola. Basterà ricordare che nei sette mesi del conflitto un esercito dotato di mitragliatrici e cannoni, aerei e blindati, oltre alle armi chimiche di cui fece massiccio uso, si scontrò con quello tribale del Negus che in larga parte disponeva solo di lance e frecce. La schiacciante superiorità numerica e tecnologica avrebbe fatto sì che le battaglie combattute per raggiungere Addis Abeba si trasformassero in autentici massacri, e va sottolineato come nei primi e più sanguinosi assalti venissero lanciati gli Ascari, truppe coloniali reclutate in Eritrea.
I piedi scalzi, il fez rosso, sottili ed eleganti accanto a leoni e cammelli come li ritraevano i manifesti liberty, i francobolli e le carte dei cioccolatini dell'epoca, sarebbero stati sacrificati in 5.000, a fronte dei 2.000 caduti italiani, per non dire delle vittime etiopiche quantificate in centinaia di migliaia. E si trattava solo di un primo acconto del costo che il popolo eritreo avrebbe pagato in seguito. Come sappiamo infatti, crollato in poche settimane con l'offensiva inglese del 1941 l'impero di cartapesta voluto dal Duce, l'Eritrea sarebbe divenuta Protettorato britannico, quindi regione autonoma federata ma poi annessa all'Etiopia, e solo con tre decenni di sanguinosa guerra avrebbe raggiunto nel 1993 l'indipendenza. Mi trovavo allora là per condurre una ricerca e potei toccare con mano l'entusiasmo che regnava per le strade di Asmara, Keren e Massaua.
Un intero popolo in festa spingeva al potere i capi dell'esercito che lo avevano guidato alla vittoria. Ma come purtroppo è successo tante volte nelle aree più povere del pianeta, l'auspicato avvento della democrazia non è mai avvenuto e gli acclamati leader si sono trasformati in tiranni. Il presidente Afewerki, incapace di risollevare un'economia ridotta al collasso da mezzo secolo di continue guerre, ha scelto di mantenere uno stato di belligeranza con lo storico nemico etiopico. Il Paese è rimasto militarizzato, con uomini e donne a tutt'oggi tenuti a forza per otto o dieci anni nell'esercito in condizioni disumane, con città soggette a brutali rastrellamenti, senza alcuna speranza di lavoro, libertà o cambiamento.
Per questo i giovani scappano, cercano di passare il confine e di raggiungere attraverso un infernale viaggio le coste della Libia, da dove tentare la traversata del Mediterraneo. Siamo così a un'altra notte fra il 2 e il 3 ottobre, questa volta del 2013, al barcone carico di ragazzi quasi tutti eritrei, disperati al punto da incendiare una coperta per segnalare la propria posizione, cosicché il precario natante prende fuoco e si rovescia al largo di Lampedusa. Le 368 vittime ne hanno fatto una delle più immani stragi di migranti fra le tante a cui assistiamo da anni, con uno stillicidio che ha trasformato in un cimitero subacqueo il Canale di Sicilia. Fin troppo facile, se non pleonastico, evidenziare il rapporto fra le due date in questione.
E farlo proprio oggi, mentre a Lampedusa, ancora una volta, con fedeltà, c'è chi ricorda quella strage in mare, a poche bracciate dalla nostra costa. E a chi fosse pronto a contestare i troppo diretti parallelismi, o reputi ingiustificato il senso di colpa dell'Italia e dell'intero Occidente verso i Paesi poveri, basterebbe ricordare il milione di morti in cui gli storici quantificano la presenza coloniale italiana in Africa, che in Eritrea è durata oltre mezzo secolo. Oppure mostrare le immagini degli ascari eritrei morti impugnando il tricolore con lo stemma sabaudo, accanto a quella delle centinaia di loro discendenti chiusi nelle bare messe in fila nell'hangar dell'aeroporto di Lampedusa, parimenti vittime ignare e innocenti di miseria, violenze e conflitti mossi da interessi altrui
Dovrebbe essere una pagina di storia nota a tutti, ma non è scontato sia così, data la colpevole rimozione attuata sul nostro colonialismo e gli striminziti paragrafi che gli dedicano i manuali di scuola. Basterà ricordare che nei sette mesi del conflitto un esercito dotato di mitragliatrici e cannoni, aerei e blindati, oltre alle armi chimiche di cui fece massiccio uso, si scontrò con quello tribale del Negus che in larga parte disponeva solo di lance e frecce. La schiacciante superiorità numerica e tecnologica avrebbe fatto sì che le battaglie combattute per raggiungere Addis Abeba si trasformassero in autentici massacri, e va sottolineato come nei primi e più sanguinosi assalti venissero lanciati gli Ascari, truppe coloniali reclutate in Eritrea.
I piedi scalzi, il fez rosso, sottili ed eleganti accanto a leoni e cammelli come li ritraevano i manifesti liberty, i francobolli e le carte dei cioccolatini dell'epoca, sarebbero stati sacrificati in 5.000, a fronte dei 2.000 caduti italiani, per non dire delle vittime etiopiche quantificate in centinaia di migliaia. E si trattava solo di un primo acconto del costo che il popolo eritreo avrebbe pagato in seguito. Come sappiamo infatti, crollato in poche settimane con l'offensiva inglese del 1941 l'impero di cartapesta voluto dal Duce, l'Eritrea sarebbe divenuta Protettorato britannico, quindi regione autonoma federata ma poi annessa all'Etiopia, e solo con tre decenni di sanguinosa guerra avrebbe raggiunto nel 1993 l'indipendenza. Mi trovavo allora là per condurre una ricerca e potei toccare con mano l'entusiasmo che regnava per le strade di Asmara, Keren e Massaua.
Un intero popolo in festa spingeva al potere i capi dell'esercito che lo avevano guidato alla vittoria. Ma come purtroppo è successo tante volte nelle aree più povere del pianeta, l'auspicato avvento della democrazia non è mai avvenuto e gli acclamati leader si sono trasformati in tiranni. Il presidente Afewerki, incapace di risollevare un'economia ridotta al collasso da mezzo secolo di continue guerre, ha scelto di mantenere uno stato di belligeranza con lo storico nemico etiopico. Il Paese è rimasto militarizzato, con uomini e donne a tutt'oggi tenuti a forza per otto o dieci anni nell'esercito in condizioni disumane, con città soggette a brutali rastrellamenti, senza alcuna speranza di lavoro, libertà o cambiamento.
Per questo i giovani scappano, cercano di passare il confine e di raggiungere attraverso un infernale viaggio le coste della Libia, da dove tentare la traversata del Mediterraneo. Siamo così a un'altra notte fra il 2 e il 3 ottobre, questa volta del 2013, al barcone carico di ragazzi quasi tutti eritrei, disperati al punto da incendiare una coperta per segnalare la propria posizione, cosicché il precario natante prende fuoco e si rovescia al largo di Lampedusa. Le 368 vittime ne hanno fatto una delle più immani stragi di migranti fra le tante a cui assistiamo da anni, con uno stillicidio che ha trasformato in un cimitero subacqueo il Canale di Sicilia. Fin troppo facile, se non pleonastico, evidenziare il rapporto fra le due date in questione.
E farlo proprio oggi, mentre a Lampedusa, ancora una volta, con fedeltà, c'è chi ricorda quella strage in mare, a poche bracciate dalla nostra costa. E a chi fosse pronto a contestare i troppo diretti parallelismi, o reputi ingiustificato il senso di colpa dell'Italia e dell'intero Occidente verso i Paesi poveri, basterebbe ricordare il milione di morti in cui gli storici quantificano la presenza coloniale italiana in Africa, che in Eritrea è durata oltre mezzo secolo. Oppure mostrare le immagini degli ascari eritrei morti impugnando il tricolore con lo stemma sabaudo, accanto a quella delle centinaia di loro discendenti chiusi nelle bare messe in fila nell'hangar dell'aeroporto di Lampedusa, parimenti vittime ignare e innocenti di miseria, violenze e conflitti mossi da interessi altrui
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