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domenica 23 giugno 2013

Sinai – L’odissea eritrea


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Zwena ha gambe lunghe e sottili. Zwena ha poco più di vent’anni. Son belle le ragazze eritree e Zwena, bella, lo è per davvero. La faccia pressa sul ruvido tessuto sporco di sabbia. La sabbia del deserto s’insinua ovunque. Manca il respiro. Lo schiaffo e il pugno adesso non fanno più male. Il dolore è paralisi. Non l’urlo, non il pianto. Quasi anche quelli fossero morti in gola. L’uomo urla. I ricci capelli di Zwena tra gli artigli feroci. Strappa, tira e strappa ancora. Non gl’importa neppure d’averla. Lei non urla. La voce al telefono chiama: Zwena… Zwena…

Lui la colpisce ancora. Un pugno sul fianco. E un altro ancora. Zwena strilla. Strilla e piange. Il fratello al telefono, anche lui piange. Zwena parla e ingoia lacrime. Poche parole in tigrino perché deve far sentire al fratello la sua voce. Lui adesso è soddisfatto. Chiude la telefonata e ricomincia l’atto da dove l’aveva interrotto. Zwena ha le gambe aperte e sanguina. Un sussulto di pianto, il dolore. È bella la schiena di Zwena. Basta non guardare le cicatrici in rilievo. La plastica fusa fa le gocce come l’acqua, ma è un’acqua che brucia.
Com’erano scure le stanze dov’era soltanto una settimana fa. Sei persone, un giaciglio. I pidocchi e neppure acqua per potersi lavare. Adesso ha una stanza sua. Una stanza che a volte divide con lui. Nell’altra, dov’era un’altra Zwena, adesso c’è un corpo. Bisogna toglierlo di lì, tra un po’ comincerà a puzzare. Domani si ricomincia, farà nuovamente “l’amore”. E suo fratello, la sentirà ancora.
Il Sinai si estende verso il confine Israelo-Egiziano. Una terra bella che pullula di armi ed è governata solo dalla legge della violenza imposta dalle tribù beduine che hanno avviato un’attività molto redditizia.
La posizione geografica della penisola la rende estremamente importante sotto il profilo geopolitico ed economico della regione.
Ciò nonostante, lo sviluppo economico che ha portato a notevoli flussi di denaro, è sempre finito nelle casse di aziende straniere e mai in quelle delle popolazioni locali.
Questo ha fatto sì che i Beduoin, ceppo etnico che ormai non è quasi più da annoverare tra le popolazioni nomadi, che continua a considerarsi un popolo diverso dagli egiziani, si sia dedicato al contrabbando transfrontaliero di merci nella Striscia di Gaza.
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Denaro facile proveniente da attività illecite, che ha permesso a nuovi boss appartenenti alle tribù beduine di controllare un vasto territorio all’interno del quale trovano spazio estremisti islamici che con i proventi delle attività illegali finanziano le azioni terroristiche.

Dal al contrabbando transfrontaliero al sequestro di persona in danno dei turisti che incautamente si avventuravano nel Sinai, il passo fu breve. Giustificato inizialmente dai beduini con motivazioni di carattere politico, la tratta di esseri umani si è presto trasformata nella più fiorente attività commerciale di molti beduini.
Il calo dei flussi turistici in minima parte dovuti alle mutate condizioni economiche a livello globale e per lo più agli effetti post-rivolta, ha fatto scoprire una nuova “mercanzia” facile da ottenere e molto remunerativa: gli eritrei!
L’Eritrea, circa 5,5 milioni di abitanti, uno dei più grandi eserciti in Africa, 10.000 prigionieri politici, una delle più brutali dittature della regione.
Diverse centinaia di giovani ogni mese lasciano il paese sfidando la sorte. In Eritrea, in Sudan nei campi profughi, diventano preda di militari o di trafficanti di clandestini che finiscono con il venderli ai beduini.
E da lì comincia la loro odissea senza fine. Torturati, a volte fino alla morte, sono costretti a chiamare i loro familiari affinchè paghino un riscatto che consenta loro di riottenere la libertà.

Percosse, violenze sessuali, plastica fusa lasciata colare sulla pelle, cadaveri lasciati ad imputridire accanto agli altri prigionieri, rappresentano un piccolo spaccato dei metodi utilizzati per convincere gli ostaggi a chiedere aiuto alla propria famiglia.
I primi dubbi su quanto accadesse nel Sinai, li ebbero tre anni fa i medici di una clinica di Tel Aviv quando notarono una crescita della domanda di aborti e un forte aumento della necessità di cure ortopediche di pazienti originari dell’Eritrea e provenienti dal Sinai.
Gravidanze da stupro e torture erano la causa delle richieste sanitarie.
In soli quattro anni, si stima che circa 5000/7000 eritrei siano riusciti a varcare la frontiera israeliana. 4.000 invece coloro i quali sarebbero morti.
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A favorire la tratta umana, le modifiche alla legge sull’immigrazione in Israele, che avrebbe portato il numero di richiedenti asilo eritrei e sudanesi che attraversano il confine con l’Egitto da 1000-1200 al mese a quasi zero, facendo sì che i profughi dovessero necessariamente rivolgersi ai trafficanti di clandestini.

Questi  cambiamenti avrebbero spinto i beduini a spostare le proprie mire dal contrabbando di merci al traffico di clandestini e successivamente al sequestro di persona.
Da poche centinaia di dollari per trasportare i clandestini alle decine di migliaia di dollari di riscatto.
E non sempre è sufficiente pagare il riscatto per riottenere la libertà.
Nell’altra, dov’era un’altra Zwena, adesso c’è un corpo. Un corpo che prima di essere tale per la famiglia che ha pagato valeva alcune decine di migliaia di dollari.

Secondo l’ UNHCR, negli ultimi due anni dai campi del Sudan orientale, almeno 619 persone sarebbero scomparse. Alcune rapite, altre convinte di aver pagato i trafficanti per portarle al sicuro oltrefrontiera. In entrambi i casi, la destinazione era la stessa: il Sinai.
Sequestrati, oggetto di estorsione, vittime di tratta, sfruttamento sessuale o lavoro forzato.
Sequestrati e rivenduti ad altri trafficanti, i quali a loro volta, una volta incassato un primo riscatto, li rivendono nuovamente.
“Le autorità egiziane hanno il dovere di proteggere ogni individuo sul loro suolo, e devono urgentemente adottare misure per liberare tutte le persone tenute prigioniere e sottoposte ad abusi spaventosi nel Sinai e fornire loro immediata attenzione medica e l’accesso alle procedure a sostegno per l’asilo,” ha detto Claire Beston, ricercatore Eritrea di Amnesty International, mentre un superstite eritreo descrive quello che è successo a uno degli altri prigionieri che è stato utilizzato come esempio perché la sua famiglia non poteva pagare: “Stava sanguinando dappertutto. Dopo altre percosse, hanno versato benzina su di lui e gli hanno dato fuoco. Dopo la sua morte, hanno lasciato il corpo in camera con noi fino alla decomposizione quando i vermi hanno iniziato a strisciare. Hanno costretto tutti noi a turno a trattenerlo “.
Dietro tanto orrore, anche europei, come nel caso di tre indagati in Svezia che avrebbero presentato richieste di estorsione dai rapitori in Egitto e avrebbero detto alle vittime che i loro parenti sarebbero stati uccisi se non avessero pagato ingenti somme per la loro liberazione.
In passato altri eritrei avevano denunciato che centinaia di famiglie in Svezia sono state prese di mira dai rapitori che operano nel Sinai. Casi analoghi sono stati segnalati in altri paesi, tra cui la Norvegia.
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Chi riesce a scappare o viene liberato dai rapitori, deve fare i conti con il rischio che la polizia egiziana lo fermi e lo arresti  come immigrante clandestino.

Fuggire da una feroce dittatura, finire rapiti e torturati per poi essere arrestati da chi avrebbe dovuto proteggerli e perseguire i criminali.
Un terribile destino quello di migliaia di eritrei che lasciano il loro paese per affrontare una sorte forse ancor più incerta e orribile.
Ma di tutto questo, il mondo occidentale, quello cosiddetto “civile” sembra non accorgersi.
Quando e se l’odissea ha fine, grazie a poche organizzazioni, associazioni o coraggiosi uomini del luogo, pochi eritrei arrivano da noi, per conoscere un’altra carcerazione momentanea e più civile: i centri di prima accoglienza.
E noi, noi servi di mille padroni, del politiconzolo di turno che non ha neppure bisogno della forza per dominarci; noi che non abbiamo il loro coraggio, la loro fierezza; noi, li guardiamo dall’alto in basso. Loro sono neri…
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Zwena domani farà nuovamente “l’amore”. E suo fratello, la sentirà ancora. Sulla sua bella schiena, altre cicatrici arricchiranno l’orrido disegno. Tra le le gambe aperte la ferita non sanguinerà più. Sarà solo pianto. Pianto e urla che il mondo non vuol sentire. E così sarà ancora, per chissà quanto tempo, per centinaia, per migliaia di Zwena. L’altra Zwena, quella dell’altra stanza, è già culla di vermi. Zwena è un nome di fantasia. La storia no. La storia è terribilmente vera…

Gian J. Morici

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