Siamo andati in Etiopia a seguire i 113 rifugiati del corridoio umanitario organizzato da Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Gandhi charity. chi sono questi profughi? Eritrei, sudsudanesi, somali. Scappati dalla guerra e dall’oppressione. Alle spalle storie di violenza e privazioni. il futuro? parla italiano
Ghennet cammina un po’ curva sotto il borsone che tiene sulla testa. Le poche cose che possiede sono tutte là dentro. Il resto è la sua Africa, quella che si porta nel cuore e nei ricordi. Quella bella dell’infanzia e quella terribile della fuga, dei campi profughi, della fame, delle violenze, della paura. Arriva all’hotel Ghion di Addis Abeba, che fa da punto di ritrovo. Stasera Ghennet (nome di fantasia, come tutti gli eritrei citati, le cui famiglie potrebbero subire ritorsioni), insieme a tutto il gruppo – 113 rifugiati più gli operatori – si sposterà all’aeroporto: le pratiche finali, il volo notturno, l’arrivo, domattina alle 4.30 a Fiumicino. L’Italia. Piena di una neve prima mai vista e di un freddo mai provato. Troverà i volti sorridenti della parrocchia che l’accoglierà. Come lei arrivano tutti, alla spicciolata. Una sessantina provenienti dai campi profughi del Nord, popolati di eritrei, e dell’Ovest, al confine con il Sud Sudan in guerra civile. Una mamma con due bambini disabili viene anche dall’altro infinito conitto del Corno d’Africa, quello somalo. Gli altri vivevano già ad Addis Abeba, con lo status di rifugiati.
Sfila Tesfay, tenendo per mano il figlio di 7 anni. Porta con sé una valigia e dieci anni da soldato, la fuga dall’Eritrea nel 2003 verso l’Egitto, l’anno di carcere nelle sue prigioni, gli ultimi dieci anni da rifugiato in Etiopia. Vorrebbe liberarsi dei terribili ricordi del Sinai. «Preferisco non parlarne», dice. Passa Abraham, aspirante sacerdote copto, imprigionato e torturato all’Asmara per aver rifiutato di arruolarsi nella leva obbligatoria, e senza data di congedo, nell’esercito eritreo. «Come ho fatto a resistere? La guida è stata questa», dice, sollevando la grande croce che porta in petto. Arriva a passo lento Nebyat con i due bambini, Shewit e Teame, uno per parte. Lei non è scappata solo dalla dittatura dell’Asmara, ma anche da un marito soldato che la picchiava. A due passi dalla piscina vociante dei bambini ospiti dell’albergo compare il gruppo dei sudsudanesi, due sole grandi famiglie di 10 e 12 membri. Loro sono rifugiati da oltre vent’anni. La guerra civile che ora insanguina il loro Paese non l’hanno nemmeno conosciuta. Sono scappati durante il conflitto precedente, quando la gente del Sud voleva liberarsi dall’oppressione del regime di Khartoum. «Venire in Italia per noi è la salvezza», dice una di loro, Sara. «Nel campo profughi dov’eravamo si replicavano le tensioni etniche che stanno distruggendo il nostro Paese. Subivamo violenze continue». Nyhal, giovane membro dell’altra famiglia sudsudanese, apre la valigia: «Vedi, del mio Paese porto con me la bandiera e questi bracciali tipici della nostra tradizione. Nient’altro».
Questo volo porterà a Fiumicino e poi in 18 diverse diocesi italiane il gruppo di profughi. Tutte situazioni di vulnerabilità, non solo perché in fuga dalla guerra o da un regime oppressivo, ma anche perché si tratta di famiglie nelle quali un figlio ha bisogno di cure, o è disabile, o ancora donne sole con bambini (talvolta frutto di violenza), oppure giovani che sono passati per l’inferno delle prigioni eritree o i sequestri delle bande di beduini del Sinai. «Mi hanno liberato perché la famiglia e gli amici hanno messo insieme 30 mila dollari», spiega Isaias, «altrimenti mi avrebbero reciso le dita una alla volta. Quando vedono che uno non ce la fa o la famiglia non paga gli prelevano gli organi. Questo, noi sequestrati, lo sapevamo tutti».
È il secondo corridoio umanitario dall’Etiopia. Il primo ha condotto in Italia 25 profughi, ne giungeranno altri 362, per un totale di 500, con le missioni programmate a giugno e in autunno del 2018. Questo è il progetto di Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e l’Ong Gandhi di Alganesc Fessaha. Un modello di corridoio umanitario senza precedenti, perché non prevede solo il “viaggio sicuro”, ma anche un lungo lavoro preparatorio di individuazione delle persone da portare in Italia, diversi colloqui con ciascuno dei profughi, la collaborazione con l’Unhcr, con l’ente di protezione dei profughi etiope (Arra), con l’Ambasciata italiana di Addis Abeba per le procedure di identificazione e di visto. Non solo. Ogni rifugiato o nucleo familiare sa già in quale parrocchia e famiglia italiana verrà accolto. Finora sono venti le diocesi che hanno dato disponibilità, alla fine del progetto saranno una settantina. Dopo l’arrivo in Italia, si prospetta un lavoro altrettanto intenso, di accoglienza e integrazione: apprendimento della lingua, ricerca del lavoro, l’autonomia entro un anno (ma l’inserimento nel nostro Paese sarà monitorato per cinque anni).
«Una grande gioia, ma anche mille paure. Questo viaggio per me e mio figlio è l’inizio di una nuova vita», dice Ezgharya, scappata dalla famigerata caserma eritrea di Sawa quand’era sotto leva. Intercettata e arrestata, e fuggita una seconda volta dopo il reintegro nell’esercito. La lunga fuga – sei anni nei campi profughi – le lascia la ferita di un marito che l’ha abbandonata e un bambino di 5 anni. «Potrò farlo studiare», spiega, «anche se so che l’Italia è una sfida difficile, ma da vincere».
«Vuoi sapere se avrei tentato la sorte della traversata del deserto e del mare? Sì, se non avessi avuto questa occasione l’avrei fatto», aggiunge. «Sì, anche sapendo che forse saremmo morti o temendo di finire nelle carceri libiche. I campi profughi ti annullano il futuro. Quando non hai più niente da sperare tanto vale tentare il tutto per tutto. Meglio rischiare la vita che vivere una non vita in una tenda dove a malapena riesci a bere e a sfamarti».
Nella notte il volo. In pochi minuti regna il silenzio, grandi e piccoli sono sopraffatti dalla stanchezza. Qualcuno non dorme, dagli oblò guarda sotto, il Sahara, poi il Mediterraneo. Noi li sorvoliamo. Laggiù, migliaia di altri profughi giocano la loro scommessa con la vita e la morte.
CORRIDOI UMANITARI, IL MODELLO ITALIANO
“Protetto. Rifugiato a casa mia”. Così Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Ong Gandhi hanno denominato il progetto dei corridoi umanitari dall’Etiopia. Un lavoro iniziato a fine 2017 e che terminerà – per la fase dei trasferimenti – nel prossimo autunno. «Abbiamo iniziato con i rifugiati siriani nel 2015», spiega Giancarlo Penza, che con Cecilia Pani coordina per la Comunità di Sant’Egidio questo progetto. «Ma l’esperienza maturata ci ha spinto a elaborare ulteriormente il modello di corridoio umanitario, la cui vera novità è il coinvolgimento della società civile ed ecclesiale. Perciò l’apporto da un lato della Ong Gandhi (la cui fondatrice, Alganesc Fessaha, da 18 anni lavora nei campi profughi etiopici, ndr) che ha curato l’individuazione dei rifugiati, e dall’altro di Caritas che ha trovato le realtà ospitanti e ha messo in collegamento i profughi con chi li ospiterà, ne fa oggi il modello più avanzato di integrazione». Si tratta di 500 persone. Poche, se pensiamo che la sola Etiopia, Paese poverissimo, accoglie 900 mila rifugiati. «Ma se il modello fosse adottato dagli Stati», aggiunge Penza, «i numeri sarebbero ben diversi».
L’apporto delle diocesi e delle famiglie è determinante: «Ogni rifugiato avrà un tutor che gli starà accanto», sottolinea Daniele Albanese, responsabile con Oliviero Forti del progetto per Caritas italiana. «Inoltre, la mobilitazione dei volontari consente un notevole contenimento dei costi: 15 euro al giorno per persona, nell’anno in cui i profughi sono in carico a noi. Dopo il quale dovranno raggiungere l’autonomia». «La formazione e la preparazione della comunità che dà ospitalità è fondamentale», insiste Albanese. «La gente sa poco o nulla di quanto avviene in Eritrea o in Sud Sudan. Chi accoglie conosce i contesti da cui provengono i rifugiati, e loro sanno dove andranno. In molti casi hanno già ricevuto un video dalla famiglia italiana che li accoglierà». La gran parte dei 113 rifugiati di questo corridoio umanitario erano già seguiti da tempo da Alganesc Fessaha, la fondatrice della Ong Gandhi Charity: «Sono famiglie dove manca un genitore», dice, «o con bambini malati e disabili. Alcuni sono coloro che ho liberato dalle carceri egiziane o dalle mani dei sequestratori nel Sinai».
A ricevere a Fiumicino il gruppo ci sono mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, Mario Giro, viceministro degli Esteri, Marco Impagliazzo, presidente della Sant’Egidio. Tutti e tre hanno sottolineato che questa è la risposta al dramma delle morti nel deserto o in mare. Ma è anche la via maestra per una vera integrazione. «Esiste l’alternativa allo sciacallaggio economico e politico, anzi pseudopolitico», ha concluso Galantino, «ed è la bella lezione che viene dai corridoi umanitari». Una lezione che, dall’Etiopia, anche l’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Berhaneyesus Souraphiel, invita a seguire: «Tutti i Paesi europei», ci ha detto, «dovrebbero fare come l’Italia».
fonte http://www.famigliacristiana.it/articolo/eritrea-questo-viaggio-per-noi-vale-una-vita.aspx