fonte Corriere della Sera
In Tigray lo stupro viene usato come arma di guerra. Il premier etiopico Abiy Ahmed ha ricevuto nel 2019 il Nobel per la Pace, nessuno lo ricorda?
Abituate a farsi la guerra tra di loro, l’Etiopia e l’Eritrea vanno d’amore e d’accordo quando si tratta di colpire un nemico comune: la regione del Tigray, odiata dagli eritrei perché in anni passati era la prima linea delle forze di Addis Abeba e odiata dal governo etiopico perché il locale TPLF si oppone al premier Abiy Ahmed.
Gli italiani che meglio hanno studiato le nostre «imprese» coloniali hanno già capito che siamo nei pressi di nomi non sempre fausti, Macallè, l’Amba Alagi, Adua dove nel 1896 un esercito moderno come il nostro fu sconfitto disastrosamente dagli abissini del Negus Menelik II. Ma non vogliamo certo indurre i lettori a un Amarcord comunque poco lieto.
Il fatto che non deve sfuggirci è piuttosto che dal novembre scorso, da quando cioè il nuovo Primo ministro etiopico annunciò l’unificazione con le buone o con le cattive del secondo Paese più popolato dell’Africa, il Tigray si è trovato tra due fuochi ed è diventato teatro di continue atrocità. Etiopici ed eritrei contro tigrini, i quali peraltro non rinunciano a dire la loro anche in tema di efferatezza.
Con una orrenda particolarità che ci riporta alle guerre balcaniche degli anni Novanta, quando i serbi e non solo utilizzarono lo stupro come arma di guerra. In Tigray accade lo stesso. Il mese scorso l’ex Presidente cilena e oggi Commissaria dell’ONU per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha dichiarato che i casi di stupro sono almeno 516, ma «si tratta probabilmente della punta dell’iceberg» perché moltissime vittime non denunciano e non vengono curate negli ospedali. Orbene, il premier etiopico Abiy Ahmed ha ricevuto nel 2019 il Premio Nobel per la Pace. Nessuno se ne ricorda?
È possibile che un Nobel sbagliato non venga revocato davanti a fatti tanto atroci? Dobbiamo credere che Abiy Ahmed non controlli il suo esercito, oppure gli stupri sono diventati anche per lui una «arma da guerra» per unificare le 80 etnie etiopiche?
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