In seguito alla proposta fatta dall'associazione pratese Chebì Onlus (www.chebi.it) ad alcuni medici, abbiamo cominciato a parlare della partenza per l'Eritrea quasi all'inizio dell'anno e, come un bambino nella pancia della mamma, dopo nove mesi questo viaggio nel cuore dell'Africa ha visto la luce: una piccola spedizione sanitaria con quattro medici, una infermiera, e due accompagnatori senza competenze nel settore, tutti accomunati dal desiderio di vivere questa esperienza soprattutto con il cuore.
L'incontro con l'Eritrea è subito coinvolgente, senza mezze misure ti sbatte subito in faccia i suoi colori, i suoi odori, i suoi problemi, i suoi sogni. Dobbiamo liberarci dagli stereotipi che ci aggrediscono e non ci sarebbero d'aiuto nell'incontro con le persone che si mostrano accoglienti e ti danno ovunque il benvenuto; può capitare che un passante ti veda, ti senta parlare, faccia due passi indietro e, in italiano, stringendoti la mano tra le sue, ti dica: "grazie per essere venuti a visitare il nostro paese".
I bambini ti vengono incontro sorridenti, sono felici di prenderti per mano, di correre a scuola o a giocare e mostrano un'esuberanza che contrasta fortemente con la mancanza di opportunità in cui si trovano a vivere.
Nella diocesi di Keren ci sono 8 "cliniche”, 5 Health Service (ambulatori di primo livello) e 3 Health Center (ambulatori di secondo livello), mentre in tutta l'Eritrea la Chiesa cattolica gestisce 31 di queste strutture nelle quali lavorano suore e personale eritrei.
Le suore in due ambulatori pur nella mancanza di medicinali e materiale sanitario riescono ad accogliere e curare nel migliore dei modi tutte le persone che quotidianamente si recano nelle strutture.
A noi gli ostacoli sembrano insormontabili: i dialetti diversi non facilitano la comunicazione, il governo eritreo, attraverso un sistema burocratico e farraginoso, di fatto, ostacola l'importazione di medicinali e li distribuisce con il contagocce alle cliniche gestite dalla Chiesa; altri problemi sono costituiti da distanze difficili da percorrere, trasporti insufficienti e mancanza di personale sanitario.
In questa situazione il ruolo dei medici del nostro gruppo è stato quello di osservatori e non di maestri, da parte loro le suore chiedono aiuto per il rifornimento delle medicine e sostegno per combattere l'isolamento in cui si trova costretto il loro paese.
Per questo è stato importante ascoltare le necessità e i bisogni delle cliniche, ma soprattutto far sentire la nostra presenza e il nostro desiderio di continuare a sostenere la Chiesa e il popolo eritreo anche da casa nostra.
Questa esperienza non si è conclusa con il rientro in Italia ma continua, in modo quasi obbligato, come una risposta ai sorrisi di quei bambini che ci sono rimasti stampati negli occhi ed impressi nei cuori.
Lucia Manzan, Enrico Mungai
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