"Siamo venuti qui per primi e siamo considerati come se fossimo gli ultimi arrivati". E'un coro unanime, sommesso, quello che si leva dal bar Asmara, dal caffè Eritrea, dal take-away Dallaq. Sono pochi, ma frequentati assiduamente, i locali eritrei di Bologna. Già verso le 18 è possibile incontrare gruppi di giovani che bevono birra chiara e giocano a scala quaranta. Sono arrivati da qualche anno, e aumentano a ritmo vertiginoso, scappati da una patria martoriata dalla guerra con l'Etiopia ufficialmente finita nel 2000. "Il trattato di Algeri non ha fatto altro che accertare uno stato di fatto, non ha posto soluzioni", spiega Amaniel, sindacalista della Cgil. Il Paese infatti permane in stato d'allerta: i soldati non hanno abbandonato le trincee, il processo di militarizzazione avviato dal capo di Stato Isaias Afewerki non accenna a fermarsi, gli scontri armati, sulle montagne del Badme, continuano a distruggere vite umane. "Io sono fuggito dall'esercito" – confessa T., giovane facchino che vive a Bologna da 3 anni – "E'dal 2000 che non combattiamo, ma il governo non vuole farci tornare a casa". T. ha raggiunto l'Italia dopo aver attraversato il deserto sudanese e quello libico, pagando migliaia di euro per ottenere i permessi necessari e per affittare, insieme ai compagni, i mezzi di trasporto. Un viaggio lungo, in cui la stessa sopravvivenza è stata messa in discussione. "Il tratto peggiore è stato quello in Libia. Lì non vedono di buon occhio chi vuol emigrare in Europa. Sono capaci di uccidere". Poi il passaggio del canale di Sicilia, su un barcone d'emergenza. L'avvistamento da parte della guardia costiera, lo sbarco a Lampedusa. Storie già note, storie non solo eritree. La recente immigrazione dall'ex-colonia fascista ha le sue radici nella guerra con l'Etiopia, nelle carestie, in un'economia che non accenna a decollare. Chi viene dall'Eritrea gode di un infelice privilegio: il permesso di soggiorno umanitario, valido per un anno. "In realtà è l'unica cosa che ci viene concessa. Una casa, un pre-contratto, un corso di italiano, tutte cose che dobbiamo ottenere senza contare su alcun aiuto", protesta P., che lavora come facchino da 11 anni. A dispetto di chi arrivava in Italia 25 anni fa, con una promessa di lavoro in tasca, i recenti immigrati giungono senza un punto di riferimento. Esistono associazioni, come quella delle Donne eritree, o iniziative importanti, come impartire lezioni di lingua madre a chi è nato in Italia, ma manca ad esempio un luogo dove la comunità possa riunirsi periodicamente. "Le nostre attività hanno sedi itineranti, da via Vezza alle Caserme Rosse", conferma Amaniel, che aggiunge: "Vorremmo un luogo dove poter stabilmente collocare le nostre attività culturali e sportive". Ma se la comunità eritrea appare messa in secondo piano rispetto ad altri gruppi di immigrati, la colpa non è solo delle amministrazioni. Gli eritrei hanno un carattere schivo, discreto, poco incline alla protesta violenta. "Non sappiamo chiedere e siamo troppo onesti, spiega il gestore del bar Asmara, nel quartiere Navile. Si tratta di una comunità compatta, solida, pronta all'aiuto reciproco. Se muore uno di loro, ad esempio, è tutta la comunità a farsi carico del trasporto della salma nella patria natia. "Attualmente stiamo raccogliendo i fondi per finanziare la carriera sportiva di Semay, un giovane maratoneta che però è troppo povero per sfondare", conferma Gaber Kidane, proprietario del colorato Ristorante Africano, fino a tre mesi fa l'unico della città. La compattezza degli eritrei ha però un lato oscuro: la chiusura, l'isolamento dalle altre comunità o dagli stessi bolognesi. L'eritreo ha una cultura più simile a quella italiana. Non si accontenta di sgobbare tutto il giorno per poche lire. Non accetta di vivere con altre 10 persone in un appartamento di 60 metri quadri. Ma non lo grida. E fa fatica anche a lamentarsi. Eppure, la comunità aumenta. Nel 2007 la Caritas ha aiutato 138 eritrei su 890 immigrati complessivi, nell'attesa di trovare un lavoro, che è quasi sempre quello di facchino o di domestico. A Bologna superano il migliaio. Da tre anni hanno la loro chiesa di rito cristiano-copto. Il peso specifico della popolazione eritrea cresce, forte di un passato importante e di una radicata cultura della lealtà. "Ad Asmara puoi camminare senza che nessuno ti tocchi, anche se sei una donna. La nostra è una storia antica che rispetta le diversità religiose e razziali. Siamo gente onesta", conclude Amaniel. Forse troppo |
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